Le lavandaie del Tevere

“La vita delle lavandaie era dura, erano anni difficili ma che ricordo con grande piacere” – Elda Giovagnoni, l’ultima lavandaia di Pretola

Foto storica lavandaie a Pretola (Perugia)

Cultura materiale e mestieri: Le lavandaie del Tevere

Storia e ambiente

La Storia delle lavandaie di Pretola – Pg

Testimonianza di Raffaele Rossi, insegnante, senatore (68-79), amministratore Perugia (75-87), storico

 

“La storia delle lavandaie di Pretola fa parte della storia della città di Perugia.

I paesi sul Tevere, quelli che nei documenti dell’Ottocento erano definiti “sotto Porta Sole a levante”, facevano un tutt’uno con la città perché erano borghi che assolvevano a funzioni sia verso la campagna che verso la città. In sostanza erano parti essenziali dell’organismo urbano e della sua funzione di guida della campagna.

Nella rilevazione statistica del 1972 (si veda L.Tittarelli, Alcuni aspetti della struttura della popolazione del contado perugino nel 1872, Quaderni dell’Istituto di statistica dell’Università di Perugia,3, Perugia 1979), “Peretola” è descritta con “acqua buona ma scarsa, con pozzo pubblico da allacciare all’argine destro del Tevere per costruirvi il lavatoio e l’abbeveratotio”. Viene anche indicata l’esistenza di 369 lavandaie, censite tra Pretola e Ponte Rio.

È evidente che la maggior parte di esse erano a Pretola e ciò dimostra quale enorme rilievo ha avuto l’attività delle lavandaie nel corso dell’Ottocento e di metà Novecento.
D’altra parte ricordo che negli anni Venti e Trenta potevo constatare l’attività delle lavandaie che arrivavano nella zona di Porta Pesa a portare i panni lavati e a ritirare quelli da lavare.
Si può dire che questa “industria” di Pretola ha rappresentato una risorsa economica per le famiglie del Paese e un servizio pubblico per la città, per le singole famiglie come per le istituzioni sanitarie del tempo”.

I racconti di una testimone: Elda Giovagnoni, ultima lavandaia di Pretola

(27_Gennaio_2007)

 

Elda Giovagnoni, classe 1925, ultima lavandaia di Pretola, ci racconta del suo lavoro settimanale, della sua vita, delle tante lavandaie di Pretola sue compagne d’avventura, negli anni a cavallo delle due Grandi guerre mondiali, anni di miseria, dura fatica e di conflitti sociali.

“La vita delle lavandaie era dura, non c’era un giorno di riposo. Anche quando non bisognava andare al fiume ci si doveva occupare della famiglia: erano anni difficili ma che ricordo con grande piacere”. A parlare è Elda Giovagnoni, 82 anni portati benissimo, “l’ultima lavandaia” di Pretola, vera e propria memoria storica di un mestiere nato lungo il fiume e che per decenni ha rappresentato la principale occupazione delle donne della zona.

“ Qui a Pretola eravamo una sessantina – ci racconta – e io mi ricordo che quando ero più piccola le vie del paese erano costituite da case piene di lavandaie: Pretola era la lavanderia di Perugia, tanti cittadini si rivolgevano a noi”.
Un’occupazione che poi, con l’avvento dell’industrializzazione e la scomparsa delle storiche lavandaie, si è andata via, via, perdendo.

“Io ho proseguito fino al 1964 – sottolinea – fin quando ho potuto aiutare mia madre. Anche se già lavoravo da un’altra parte, quando potevo andavo a darle una mano”.

“Si cominciava la domenica mattina, quando facendo la “corta” (il sentiero che dal fiume tagliava per i campi e raggiungeva Via Enrico dal Pozzo, nella zona di Porta Pesa), le donne di Pretola arrivavano in città”.

“A Perugia ci dividevamo: ognuna aveva i suoi posti e le sue famiglie da servire. Io mi occupavo di Via dei Priori, mentre mia madre della zona di Piazza Grimana. Terminato il ‘giro di raccolta’, tornavamo verso casa e, se si era fatto tardi, ci facevamo aiutare dai carrettieri che, presso il sottopasso di Porta Pesa, caricavano i nostri pesanti e ingombranti fagotti di panni”.

Erano gli abiti di una settimana, che i cittadini mandavano a lavare giù al fiume.

“Per lo più erano poveri come noi – ricorda – e ci pagavano con quello che avevano”, anche se c’era un tariffario ben preciso a seconda del capo che doveva essere lavato.
Chi era più fortunata aveva qualche ricco signore tra i suoi clienti: era invidiata da tutte perché sicuramente riportava a casa qualche soldo più delle altre”.

Una volta a Pretola, nelle proprie abitazioni, le lavandaie contrassegnavano i panni da lavare con dei fili colorati (a punto e croce) per distinguerne le famiglie proprietarie.

“Il lunedì andavamo al fiume, o nei fossi vicini, a lavare: ognuno aveva il suo posto, con le proprie pietre, con la propria “barca” di legno. Una volta bagnati, portavamo i panni nei nostri fondi, dove facevamo ‘la bucata’ (il bucato)”Qui, i panni, venivano messi in appositi contenitori (ziri grandi, di terracotta con un buco sul fondo , detti ‘scine’) e sopra un panno con la cenere ,si versava acqua calda e soda.
Il panno faceva da filtro. L’acqua che usciva dal fondo (“ranno”) veniva di nuovo riscaldata nella fornacetta o nel caldaio, e versata di nuovo nelle scine, fintantoché il “ranno” non fosse stato chiaro”.

“Il mercoledì – ricorda Elda – portavamo i panni ad asciugare lungo il fiume, sopra i sassi (petriccio), che prima avevamo pulito : il Tevere non era inquinato come oggi e si poteva ancora fare. Chi non faceva in tempo a trovare spazio lungo il fiume, saliva sulla collina di Pretola : anche li, ogni donna aveva il suo spazio, il suo filare dove appendere i vestiti da asciugare”.

“Il giovedì si riportavano i panni in città, e fino alla domenica ci si occupava della famiglia, non c’era tempo per riposarsi. Ci si divertiva anche, però, quando la sera , dopo aver lavorato ci ritrovavamo tutte insieme al fiume, per parlare e scherzare. O come quando, ma questo ce lo raccontavano le nostre mamme e nonne, durante il periodo di Carnevale, dopo aver preso i panni dei signori di città, prima di andarli a lavare, se li indossavano, per mascherarsi , per festeggiare e ballare lungo il Tevere”.

Questa la settimana tipo

Il lavoro iniziava sempre di domenica.

 

Domenica

Su per la ‘corta’ a raccogliere i panni sporchi in città. La domenica mattina verso 7.00 (8.30 – in inverno), le lavandaie di Pretola partivano per la città di Perugia a raccogliere i panni sporchi presso le famiglie, enti, istituti o caserme militari. Per arrivare in città, percorrevano un sentiero chiamato ‘la corta’ . In estate camminavano sempre scalze, gli zoccoli (zocchi) erano indossati solo all’ingresso della città, questo per non consumarli. Tutte le lavandaie erano poverissime.

Sottopasso di Porta Pesa (Perugia): era il punto d’arrivo, il punto dove si raccoglievano i tanti fagotti di panni, e il luogo di ripartenza verso il paese di Pretola.

Il sottopasso di Porta Pesa (borgo di Fontenuovo), era il punto d’arrivo o partenza delle lavandaie. Da questa porta arrivavano o partivano anche tre carri carichi di panni (fagotti).
Le lavandaie, dopo aver fatto il giro della città per la raccolta dei panni (poste), facendosi aiutare dai carrettieri, caricavano i carri di “fagotti” e alle ore 16.00 della domenica, ripartivano per Pretola. In serata contrassegnavano i panni, facendo ‘il punto croce con dei fili colorati, per riconoscerli…

 

Lunedì

Il lunedì le lavandaie andavano al fiume o al fosso per una prima bagnata ai panni.

Il lunedì, di buon mattino le lavandaie andavano al Tevere o al fosso per dare una prima bagnata e insaponata ai panni.
Ogni donna aveva il suo “posto”, la sua “barca”, la sua pietra.
Per il trasporto dei panni usavano le “carrette”, le “ceste” o i “fagotti”.
Una volta bagnati, i panni erano pronti per il bucato (la bucata), che veniva fatto nei fondi delle proprie abitazioni…

 

Martedì e mercoledì

Le lavandaie tornavano al fiume o al fosso, per l’ultimo lavaggio. Il martedì mattina, i panni erano tolti dalle “scine”, trasportati nuovamente al fiume o al fosso per essere definitivamente lavati. Insieme alla “barca”, la “tavoletta” e il sapone (grassi di maiale), veniva portato anche il ‘ranno’ (su un secchiello), recuperato dalla “bucata”. Per i clienti, che volevano colorare di ‘azzurrino’ le lenzuola, le lavandaie portavano un catino con il “turchinetto” (polvere azzurrina avvolta in un fazzolettino), che usavano a fine lavaggio…

Al termine d’ogni lavaggio, i panni venivano portati ad asciugare sul “pietriccio”, i bordi delle strade e sulle colline adiacenti al fiume.

Al termine d’ogni lavaggio, i panni bagnati erano trasportati con le carrette, i cesti o i fagotti, su per la collina, dove ogni famiglia aveva i suoi fili per stendere i panni. I panni erano asciugati anche lungo i bordi delle strade, che in quei tempi erano pieni di cespugli, o anche nel ‘pietriccio’ (letto di sassi) dell’ansa del fiume. Nella serata i panni erano raccolti, piegati, messi nei ‘fagotti’, pronti per essere riconsegnati in città…

 

Giovedì

Le lavandaie caricavano sui carri i fagotti, riprendevano il sentiero per tornare in città e riconsegnavano i panni ai clienti sparsi per tutta la città.

Il giovedì mattina, nella piazza del paese, le lavandaie caricavano i propri fagotti di panni, sui tre carri che facevano la spola con la città.
Poi s’incamminavano per la ‘corta’.Dopo essersi fermate d’estate, a lavarsi i piedi presso la fonte del Borgo di Fontenuovo, si ritrovavano presso il sottopasso di Porta Pesa.
Scendevano i ‘fagotti’dai carri e partivano per la riconsegna dei panni ai propri clienti.

 

Il bucato (la bucata)

 Il tempo che andava dalle 17.00 alle 22.30, era impiegato per fare la “bucata”, processo di lavaggio che prendeva il nome dal “buco” che era in fondo alla “scina”(grosso vaso di terracotta).
I panni, già bagnati, venivano “incestati” nelle “scine”, ogni famiglia n’aveva più d’una. Selezionavano con cura i panni da mettere nelle varie “scine”, che poi ricoprivano con un “canovaccio” e della cenere…

La fornacetta

Per lavare i panni, nelle “scine” era usata acqua calda, che nel nostro territorio, era scaldata nella “fornacetta”(costruzione in mattoni e calce, contenente un caldaio di rame). Ogni famiglia aveva la propria, se non avevano la “fornacetta”, l’acqua era scaldata nel caldaio del caminetto, o nel bollitore. La legna era quella che forniva il fiume (pattume – fuceglie – ticchiareglie ), o quella che era acquistata dal carrettiere (fascine).
Quando l’acqua bolliva, si aggiungeva soda o saponina. Poi con un secchio o una brocca, si versava in modo continuativo l’acqua calda sopra la cenere.

Il ranno

Il liquido che fuoriusciva dalla “scina” (ranno), era nuovamente riscaldato e versato di nuovo sulla cenere, fin tanto che non usciva un liquido trasparente, che a sua volta era recuperato per essere utilizzato nell’ultimo lavaggio al fiume o al fosso. Fatta la “bucata”, i panni restavano nelle “scine” per tutta la notte…

Progetto Didattico – Incontri con le scuole

Progetto “Dal Tevere alla lavatrice”

 

Consulta la sezione Scuole e Didattica per vedere il progetto completo.

 

[GUARDA IL PROGETTO]

La mostra presso la sede dell’Associazione per l’ecomuseo

 Nel 2005 fu allestita una mostra al piano terra della torre di Pretola nell’ambito della “Festa della Canaiola ”, come prima tappa di quel lungo percorso intrapreso dall’associazione per la promozione e realizzazione di un ecomuseo nel territorio perugino del Tevere.

Esempio di lavoro femminile

La ricostruzione infatti dell’attività lavorativa delle lavandaie rappresenta un approfondimento di storia sociale ed economica ed in particolare di storia del lavoro femminile, che riguarda sia il territorio che la città di Perugia, attraverso un recupero e una valorizzazione della memoria di eventi, di gesti, di oggetti, di parole cadute in disuso, che ci appartengono e che sono da custodire gelosamente,prima che scompaiano
definitivamente quanti ne furono testimoni.

Ciò è stato possibile grazie al coinvolgimento e alla collaborazione di tanti abitanti di Pretola, e soprattutto di una testimone eccezionale, come Elda Giovagnoni, lavandaia di Pretola, che ci racconta del suo lavoro, della sua vita, in quegli anni di dura fatica e di conflitti sociali, che non possiamo e non dobbiamo dimenticare.

Il racconto di Elda

Elda racconta a tutti noi, attraverso la mostra (ora conservata presso il Centro di documentazione del Tevere, presso la sede dell’associazione) e il video, le fasi di quel lavoro:

  • il ritiro e la consegna dei panni lavati e da lavare dopo aver percorso il “sentiero delle lavandaie” da Pretola a Perugia, e viceversa, lungo il fosso del Cimitero · il lavaggio presso il fosso o il Tevere con la “barca” e il bucato fatto con la scina
  • le lavandaie di Pretola e di Ponte Rio, i nomi, le foto, recuperate da amici e familiari
  • la restituzione del sentiero e la mappa del territorio

Così, grazie alla collaborazione di quanti hanno realizzato interviste, rintracciato il sentiero, recuperato oggetti, fotografie, memorie, si restituisce ad un intero paese, alla città di Perugia, a quanti sapevano, ma avevano dimenticato, a quanti non sapevano, la riappropriazione di un passato recente, di un pezzo di territorio fluviale, segnato da quei gesti, da quei volti, da quelle mani gonfie di fatica.

Le lavandaie di Pretola e la “curta”

Le lavandaie di Pretola hanno rappresentato per molte famiglie perugine un importante aiuto per la gestione familiare.
La loro storia è stata ricostruita attraverso una ricerca supportata dalle testimonianze di Elda, ultima lavandaia di Pretola, purtroppo anche lei scomparsa recentemente.