Il paese dei carbonai: Fratticiola Selvatica
Foto storica di Fratticiola Selvatica (Perugia)
Cultura materiale e mestieri: Il paese dei carbonai: Fratticiola Selvatica
Storia e ambiente
Storia di Fratticiola Selvatica
Fratticiola Selvatica è situata su di un colle ad un altitudine di 673,91 metri sul livello del mare. Un tempo era chiamata “Fratta” in seguito “ Fratticiola Cordicesca”(nome di origine longobarda). Solo più tardi venne chiamata Fratticiola Selvatica. Il termine Fratticiola deriva da “fratta” che significa intrigo impenetrabile, zona di rovi e di sterpi, il termine Selvatica indica che il paese, circondato da selve, fosse difficile da raggiungere.
Una posizione privilegiata
La posizione di Fratticiola permette una meravigliosa vista panoramica sul territorio che la circonda. Il piccolo borgo è caratterizzato da un clima molto particolare: l’inverno è piuttosto freddo ed è battuto da venti di tramontana; l’estate invece è calda ed è influenzata da venti umidi. Le origini del paese, confermate dalle descrizioni inserite nel catasto del 1383 e dalle innumerevoli pagine degli Annali di Perugia, sono molto antiche e si fanno risalire al VI secolo a. C. in quanto è stato ritrovato un fermaglio in bronzo, ora conservato nel museo Archeologico di Perugia.
Distruzione e restauro
Nel Medioevo divenne un castello fortificato, come si vede dalle quattro torri, le mura, il pozzo e la cisterna, giunti fino a noi. Dato che il luogo si trovava sul confine sulla potente Gubbio, il castello ne subì l’occupazione ed il Comune di Perugia, per salvaguardarlo lo munì di notevoli attrezzature di difesa e di offesa.
Durante la guerra tra Papato e Perugia (1405 – 1406), il castello venne distrutto, tuttavia nei secoli successivi fu più volte restaurato, e Perugia permise man mano il ripopolamento del borgo, grazie anche a diverse esenzioni da tasse per le persone che vi andavano ad abitare.
La produzione del carbone
Una attività tipica che si è sviluppata nel passato a Fratticiola, essendo legata allo sfruttamento delle risorse del territorio impervio, è la produzione del carbone. Infatti, avendo la disponibilità di un importante patrimonio boschivo, si sono formate specifiche attività e capacità nella realizzazione di questo importantissimo combustibile, vero e proprio mezzo di sussistenza per intere generazioni passate. Così, a Fratticiola Selvatica risiedevano numerose famiglie di carbonai: uomini che avevano fatto dell’arte di “bruciare la legna” il loro lavoro producendo importanti quantità di carbone per il mercato locale e perugino in particolare.
La Sagra del Carbonaio
Ancora oggi, ogni anno, nel ricordo di questa attività così pesante ma anche affascinante, si svolge nel paese una festa nel ricordo di questa arte che ricorda le origini del Paese, detta appunto “Sagra del Carbonaio”. Nel corso della Festa vi sono anche specifici appuntamenti preparati dalle organizzazioni locali che tendono a riportare alla memoria odierna la dura vita del tempo ma anche le tecniche e le origini di questi straordinari posti a tutta la collettività. A tal proposito è doveroso ricordare la Mostra mercato del Mulo e del Cavallo da Soma, che insieme al Palio rende omaggio al fedele compagno di lavoro del vecchio carbonaio: il Somaro; e la Cotta del Carbone, rievocazione originale della tecnica di produzione del carbone che accompagna per tutto il corso della Festa i ritrovi conviviali, diffondendo un inconfondibile aroma sia di giorno che di notte in tutto il paese.
Il carbone tra cultura e tradizione popolare
La “cultura” del carbone e dei suoi benefici, a Fratticiola, si sono tramandate di padre in figlio attraverso il racconto di storie, incontri ed avventure di un tempo passato. Un patrimonio, questo, ancora conservato nella memoria collettiva, ripercorribile e tangibile attraverso le testimonianze delle generazioni più anziane con il racconto della vita quotidiana di allora a Fratticiola Selvatica.
Ancor prima che il fornello elettrico, la stufa a gas e la termocoperta fossero entrati nell’uso comune nelle nostre case, il carbone era il combustibile più utilizzato nelle varie necessità domestiche.
Fino agli anni cinquanta le nostre mamme e le nostre nonne si affannavano ai fornelli a mantener viva la brace di carbone, manovrando la ventola di penne di tacchino, per alzare il bollore delle pentole e, dopo cena, “mettevano il prete”, con molti tizzi di carbone accesi, per stemperare i letti nelle fredde camere prive di riscaldamento.
La vita difficile del carbonaio
Il carbone era quindi essenziale e, numerosi erano coloro che in montagna e in collina esercitavano il mestiere del carbonaio. Per lunghi periodi dell’anno i carbonai vivevano nei luoghi più solitari e remoti, intorno al misterioso mondo della “Carbonaia”. Esposti a tutte le intemperie e tra mille disagi, quei nobili eremiti dei boschi tagliavano legna e ne facevano carbone che, per essere molto leggero, era facilmente trasportabile in sacchi, a dorso di mulo o di asino, anche nelle zone più impervie o di difficile accesso. Oggi quest’arte è andata perduta e si può ben dire, con un gioco di parole, che i “neri” carbonai sono ormai più rari delle mosche bianche.
La preparazione della cotta del carbone
La “Cotta di Carbone” o “Carbonaia” è un piccolo capolavoro di tecnica e di esperienza, trasmesse da una sapienza antica, che si perde nella notte dei tempi. In una radura del bosco, possibilmente riparata dai venti, veniva preparata la “piazzola” o “aia”, la cui ampiezza variava in relazione alla grandezza della carbonaia da realizzare.
Con un lavoro preciso di zappa e di rastrello venivano praticate le dovute pendenze al terreno per evitare eventuali ristagni di acqua piovana e per favorire il deposito dei catrami, derivanti dalla combustione di legna ancora fresca. Perpendicolare, al centro dell’aia, un palo attorno al quale in cerchi concentrici e sovrapposti, venivano disposti tronchi di legna, mediamente lunghi un metro, con la parte più fina rivolta in basso, a formare una catasta di forma conica. Il palo di centro veniva poi sfilato dall’alto e l’apertura, detta “rocchina” fungeva da camino. Il fuoco veniva appiccato con una specie di torcia attraverso un cunicolo, appositamente predisposto durante la costruzione, che metteva in comunicazione l’esterno con il centro (cuore) della cotta, dove un accumulo di legna fina e secca si incendiava con facilità. La catasta, una volta ultimata, veniva ricoperta completamente di terra battuta, di polvere di carbone (rucia) e di zolle erbose (pellicce).
La chiusura del camino
Appiccato il fuoco al centro della cotta, veniva chiusa l’apertura alla base e lo stesso camino, lasciando solo che un filo d’aria potesse penetrare dagli “sfiatatoi” o “cagnoli”, praticati sui fianchi della cotta con un palo di legno appuntito. Chiudendo o aprendo nuovi sfiatatoi, si regolava una combustione lenta e graduale, sostenuta da un’ossigenazione contenuta e calibrata, sì da permettere alla legna di bruciare ad alta temperatura, senza fiamma, per non diventare cenere.
L’arte e la bravura del carbonaio si manifestavano appieno nel saper capire dal colore del fumo, dal trasudamento dovuto all’umidità della legna e dal soffio del tiraggio, se era necessario aumentare o diminuire l’ossigenazione, aprendo o chiudendo nuovi sfiatatoi o gagnoli.
Occhio ai gagnoli
Quando un fumo grigio-chiaro avvolgeva la carbonaia, fuoriuscendo dalle crepe della copertura riarsa, che venivano via via immediatamente tamponate, era segno che l’umidità della legna era finita. La combustione delle parti basse e perimetrali veniva favorita da prese d’aria che consentivano di attivare il fuoco anche nei punti morti finché, chiusa ogni apertura, si lasciava raffreddare la massa, ormai carbone.
Dal momento in cui veniva appiccato il fuoco, il carbonaio per giorni e giorni sorvegliava continuamente la cotta, anche di notte, riparandosi e riposando durante le pause in una capanna appositamente costruita ai margini della carbonaia. Una disattenzione, un ritardo, potevano compromettere il risultato finale. Una combustione imperfetta poteva, infatti, impedire che la legna si trasformasse, in vero carbone, diventando cenere o che tizzoni legnosi potessero fumare, una volta accesi, nei fornelli delle case.
Ecco il carbone
La fase finale, ricca di una’certa suspance, consisteva nello scoperchiamento del carbone. L’afflosciamento della calotta, se regolare e uniforme, era già un buon indizio e lasciava presagire che all’interno non ci fossero parti incombuste di legna. Tolte le zolle di terra, con un rastrello, chiamato in gergo “sommondino”, si tiravano dal centro verso l’esterno tutti i residui terrosi, lasciando il carbone che, sistemato nei sacchi, era così pronto per essere trasportato con i muli o con gli asini.
Un’ occasione per riviverla
Non possiamo perdere per sempre i segreti di quest’arte antica, legata in qualche modo ai misteri dell’alchimia e che sfugge alle più sofisticate soluzioni della moderna tecnica. Per questo, ogni anno, la nostra Pro Loco, nell’ambito delle manifestazioni della “Sagra dello Spaghetto dei Carbonai”, realizza la “Cotta di carbone”.
Certamente la carbonaia che proponiamo all’attenzione di chi visita la “Sagra”, non ha le dimensioni di quelle che venivano realizzate in passato, però la tecnica usata è proprio quella d’allora. Ai margini del paese, un tempo, fumavano abitualmente le cotte, perché Fratticiola era immersa tra boschi è selve, al punto da meritare l’appellativo di “Selvatica”. L’acre e penetrante fumo che si diffonde nell’aria durante la combustione ha un odore particolare e insolito, un profumo di tempi lontani, del tutto diverso dallo smog, che inquina le nostre città.
Le ricette tipiche raccontate dalla Sig.ra Marinella Rossi addetta alla cucina
(IntervistaAprile 2012)
Le nostre ricette
Spaghetti alla carbonara, dosi per 4 persone:
4hg di spaghetti, 4 rossi d’uovo, 3 hg di barbozzo o pancetta, 70 g di pecorino romano, 140 g di parmigiano reggiano, peperoncino e vino bianco.
Per quanto riguarda la preparazione procedere nel seguente modo. Mentre bolle l’acqua far rosolare il barbozzo tagliato a cubetti con poco olio. Salare pepare e aggiungere peperoncino. Aggiungere mezzo bicchiere di vino bianco e farlo evaporare. Nel frattempo in una terrina mescolare le uova, con una frusta, con metà formaggio.