I barcaioli di umbertide
Percorso sotto il ponte della ferrovia ad Umbertide
Cultura materiale e mestieri: I barcaioli
Storia e ambiente
Premessa
Testimonianza di Adriano Bottaccioli
Un’attività ormai scomparsa attorno alle rive del Tevere era quella dei barcaroli. Era un’attività particolarmente importante perché i ponti nel tratto relativo al nostro comune erano praticamente inesistenti.
- il primo all’altezza di quello che oggi è il ponte di Montecastelli, ed era uno dei pochi traghetti di importanza eccezionale per chi veniva da Città di Castello perché non aveva altre possibilità di valicare il fiume;
- poi c’era un altro traghetto più a valle ed era quello cosiddetto della barca di Carosciolo. In questo caso era una semplice barca per il trasporto di pedoni, mentre il primo trasportava carrozze e elementi di una certa grandezza.
- Il terzo traghetto era all’altezza della Badia di Monte Corona e a proposito di questo si ricorda nella storia un episodio piuttosto recente di un incidente in cui rischiarono di affogare moltissime persone.
“C’era una festa alla Badia e avvicinandosi l’orario di partenza del treno, che era dall’altra parte della riva, si affrettarono tutti attorno al traghetto e questo perse l’equilibrio e mandò molta gente a bagno. La gente fu salvata dai carabinieri del posto”.
Il traghetto è esistito fino a poco tempo fa, era il traghetto di Ascagnano che era in corrispondenza del ponte di legno che fu a sua volta portato via dalla piena. Rimase in funzione fino agli anni ‘50 per usi sempre e solo pedonali.
I traghetti
Brano tratto da “Ascoltare il Tevere” di Antonello Lamanna, Euro Puletti, Piero Salerno – Editore Era Nuova, 2000, Perugia
“I traghetti assumevano sovente la denominazione ubiquitaria di barca o barcaccia termini che hanno dato luogo ad analoghi toponimi, presenti lungo le parti spondali del fiume. I traghetti sopperivano alla mancanza di ponti nei luoghi ove era maggiormente sentita la necessità di attraversare il fiume.
La barca è uno zatterone con sponde laterali, ma priva di quella anteriore o posteriore, o a volte, di entrambe.
Le parti prive di sponde prendevano il nome di gòle e servivano a salire e a scendere dalla barca. Le barche erano manovrate con l’ausilio di un lungo e solido palo con il quale far forza sul fondale del fiume: la stanga.
Questa era quasi sempre fornita di un puntale di ferro all’estremità superiore.
Il traghettatore con la forza delle braccia imprimeva il movimento alla zattera, mentre con il movimento delle gambe e dei piedi indirizzava la barca verso una certa direzione (dàa’l vèrzo). Talora, quando l’acqua era particolarmente alta ed il carico pesante, i traghettatori a manovrare la barca salivano a due, ciascuno dei quali fornito di una stanga indipendente. La barca non aveva misure standard, si ha cognizione di modelli lunghi attorno ai quattro metri e lunghi circa tre. La poppa (culo) era generalmente più larga della prua (punta). Le barche venivano ancorate ad un funicchio, vale a dire un cavo di acciaio assicurato ad un puntone ad una sponda del fiume e terminante in un casotto nella sponda opposta.”
La chiodara: “Era un’ampia zattera costituita da tronchi d’albero ed atta al trasporto di legname ed altro vario materiale”.
Si rovescia la barca di Montecorona
Articolo tratto dal “Calendario di Umbertide 2011”
“La festa alla Badia di Montecorona, nel maggio del 1894, per poco non finì tragicamente.
Un folto gruppo di umbertidesi, temendo di perdere il treno col quale erano giunti la mattina, si era gettato sulla barca che lo avrebbe traghettato sul Tevere fino all’altra sponda, all’edicola di Palazzo Rosa, fermata dell’Appennino Centrale. Ma la foga nel salire quando ancora il barcaiolo non si era ancorato bene a riva, aveva fatto piegare di colpo l’imbarcazione che si era riempita d’acqua.
Presi dal terrore, tutti si erano lanciati nel fiume (“come se fosse stato peggio rimanere sulla barca”) rischiando di annegare. Per fortuna vennero posti in salvo da coraggiosi nuotatori, tra cui Vincenzo Guardabassi, Luigi Villarini, Domenico Romitelli, Gaetano Fornaci, Annibale Bartoccini, Giuseppe Tramontani e Odoardo Benedetti. Fondamentale anche l’intervento dei carabinieri di Umbertide che “in mezzo alla confusione seppero, con militare sangue freddo e con l’abnegazione che è tutta propria dell’arma, impedire una disgrazia più grave”.
I frettolosi gitanti, dopo una rilassante giornata all’aperto con tanto di pranzo tra i pini e gli abeti secolari della Badia, se la cavarono con un semplice bagno che, visto il maggio inoltrato, non dovette risultare del tutto sgradevole.
La notizia del grave rischio corso, dello scampato pericolo colpì molto l’opinione pubblica e finì sui giornali.”
Il barcaiolo Luigino Locchi (1850-1924)
Dal libro “Gli amori di un Re” di antonio De Cesare, si leggono importanti passaggi che testimoniano l’importanza dell’attività dei barcaioli e dimostrano anche quanto essi fossero vicini alla vita privata dei traghettati.
In particolare c’è un episodio da ricordare che riguarda Re Luigi di Baviera che visse un lungo amore durato circa quarantanni con Anna Florenzi di Perugia residente al castello di Ascagnano (Pierantonio).
“Il Re di Baviera (…) scendeva ogni anno in Italia, arrivava in Umbria, e veniva a vivere la vita dell’Amica nel castello di Ascagnano”.
Il De Cesare continua scrivendo: “La prima che io fui ad Ascagnano quindici anni or sono, conobbi il “Caronte” del posto: un caratteristico e rubizzo nonagenario, certo Locchi, noto con il dimiuitivo di Luigino, che aveva la memoria fresca ed era loquace come l’acqua del fiume. Ora è morto. Egli ricordava perfettamente le gite del Re che gli era largo di danaro. La marchesa Florenzi soleva attendere l’Ospite coronato alla riva opposta.
Una volta il Re, nello scorgerla di lontano, si levò in piedi nel barcone, e, nella fretta di agitare le braccia in segno di festa, urtò il capo alla corda del traghetto e cadde in acqua.”
L’intervista fatta a Renato Locchi, nipote del barcaiolo Luigino, aggiunge un particolare interessante all’episodio: “Mio nonno raccontava che aiutò il Re a venir su dall’acqua e gli disse: “Maestà ma glielo avevo detto che doveva stare attento! e il Re rispose: “Purtroppo prima o poi anche i Re cadono!”.
Renato ci racconta anche un altro divertente episodio relativo a suo nonno il barcaiolo: “C’era un militare che tornava in licenza, mò era tardi, notte e per non dormire sulle rive del fiume aspettando l’alba, il militare chiamò mio nonno dicendo: “Barcaiolo vieni con la tua celebrica che al mio paese voglio ritornare” lui, pensando che si trattasse del Re, sveglia mia nonna, e via… che c’era il Re! Accendono le lanterne, corrono, arrivano al fiume e trovano solo il militare che doveva tornare a casa. Così mio nonno gli disse: “Se sapevo che eri tu, di certo dormivi qui dentro…” riferendosi al casotto che il barcaiolo usava per ripararsi dalla pioggia e dal freddo durante le attese.
Ancora un altro episodio narrato da Renato, il nipote del Barcaiolo Luigino:
“C’era un contadino che c’aveva un somarello e per lui il somaro era importante. Veniva di tanto in tanto al mulino a Pierantonio e doveva attraversare il fiume. Il somarello ogni volta che doveva montare sulla barca si fermava perché non voleva salire e il contadino lo incitava a salire dicendo: “Qua, qua, qua!” ma il somaro restava fermo. Mio nonno ci aveva sempre una pala, un badile, nella barca, così lo prese e da dietro dà al somarello una grossa sorba sulla schiena. Il somaro fa un salto e via dentro la barca. Il contadino gli fa: “Però no, non mi ci dovevi fare così” e mio nonno rispose: “Guarda che fa più una palata sulla schiena che cento “qua”!”
L’intervista a Renato Locchi prosegue:
“Qui ci passava tutta la gente di Ascagnano, della Bruna e venivano anche da Santa Giuliana perché i contadini passavano di qui con la barca per andare al molino. La barca era grande c’entrava il carro con un paio di buoi.
Quando la gente usava il traghetto, quelli della zona non pagavano, quelli fuori zona, qualcuno gli dava qualcosina (in soldi) ma non c’erano tanti soldi e spesso pagavano con una bottiglia di vino, una bottiglia di olio…
Poi per avere un contributo anche dalla gente del posto, mio nonno aveva il permesso di andare per esempio all’azienda di Ascagnano, che era grandissima, al momento che battevano, e lui andava dai contadini che gli davano il grano; poi invece quando era tempo di vendemmia gli davano il mosto, insomma se la cavava sempre in quel modo.
Quando arrivava il Re invece era largo di manica e dava i soldini e di quei tempi i soldini facevano fila. Magari il Re fosse venuto tutti i mesi!”
Il territorio è lo stesso di prima morfologicamente?
“Il Tevere allora passava più in là faceva un percorso diverso. Sulla sponda poi c’era un casotto perché mio nonno quando andava di qua o di là, aspettava e, se pioveva, si riparavano dentro a questo casotto.
L’acqua del fiume era alta 5-6 m, c’era il guazzo, dopo che l’hanno dragato e pulito è diventato un fiumiciattolo, ora c’è meno acqua.
Questa era la spiaggia dei pierantoniesi, la domenica venivano qui 30-40 persone. Qui era tutto più largo, c’era tutta sabbia, e quando uno aveva sete dalla riva del Tevere si faceva una buchetta e dopo 5 min veniva su quell’acqua limpida, si beveva acqua fresca, buonissima.”
Quando l’attività del barcaiolo è finita?
“Quando è stato fatto il ponte, prima della guerra, poi il ponte è caduto, poi l’hanno rifatto del ‘50 e è caduto ancora nel ‘60, dopo hanno rifatto quello in muratura nel ‘70. Qui si passava con una passerella stretta e ci si passava con le moto o con le bici e ogni tanto qualcuno finiva a bagno e noi sentivamo a urlare e correvamo giù io e mio fratello ogni tanto a recuperarlo.”
Storie lunghe un fiume
Dal libro di Giannermete Romani e Graziano Vinti, ed. ALI&NO Perugia, 2006
Parlando del viaggio nell’alta valle del Tevere a metà Ottocento compiuto da Thomas Adolphous Trollope, uno scrittore, storico e giornalista inglese, si racconta che egli da Città di Castello verso Fratta (il vecchio nome di Umbertide), sotto una pioggia torrenziale, arrivò al traghetto situato circa quattro miglia sopra Fratta. Il Tevere a causa della pioggia incessante era in piena.
Trollope racconta così: “In fondo la strada scendeva rapidamente, all’improvviso, verso l’argine; e il fiume, la casa dell’imbarco, l’enorme barca che sembrava impazzita, doppiamente assicurata alla corda, che andava fino all’altra sponda (…) Il traghettatore del Tevere era un tipo tarchiato, dall’aspetto gioviale, alto sei piedi e di fisico robusto: un bell’esemplare della razza Umbra, che è più massiccia e corpulenta di quella Toscana (…) Era sicuramente un uomo autorevole questo sovrano del Tevere, con numerosi traghettatori alle sue dipendenze, e disse così: “Si passerà, ma malamente” Ma perché malamente? “Si passerà malamente caro mio Signore! E tra mezzora non potrete più attraversare. Di minuto in minuto la piena aumenta. (…) Si passerà malemente”. E questa fu tutta la spiegazione che mi venne data. E sembrava che vi fosse qualche difficoltà, se pur minima, per issare a bordo la carrozza e farla scendere. Ma sebbene l’acqua torbida ci urtasse scorrendo a velocità tale, che faceva girare la testa solo a guardarla, mi parve che la traversata avvenisse senza altre difficoltà rilevanti; e una volta lasciata la riva impiegammo in tutto meno di cinque minuti.”
Questa testimonianza dimostra l’enorme esperienza dei barcaioli. Essi conoscevano bene il fiume, il suo comportamento a seguito di forti piogge e, a ragione, Trollope chiamava il barcaiolo “il sovrano del Tevere”.
Inoltre sempre dal libro “Storie lunghe un fiume” si legge: “Il barcaiolo doveva avere competenza e garantire l’incolumità dei viaggiatori, dato che durante l’attraversamento potevano avvenire incidenti, come quando nel 1823, il giorno delle ceneri a Monte Corona, la barca di ritorno dalla Messa affondò per il peso eccessivo dovuto al sovraccarico di passeggeri. Nell’incidente moriva una donna di 29 anni, Maddalena Ubaldi. (…)”